Sammlung der Entscheidungen des Schweizerischen Bundesgerichts
Collection des arrêts du Tribunal fédéral suisse
Raccolta delle decisioni del Tribunale federale svizzero

BGE 83 II 363



83 II 363

50. Sentenza 11 luglio 1957 della II Corte Civile nella causa Martinoli
contro Martinoli. Regeste

    Versteigerung von Erbschaftsgrundstücken unter den Miterben allein
und Erbteilungsvertrag.

    1.  Wenn Miterben vereinbart haben, unter sich allein die Grundstücke
der Erbschaft zu versteigern und, zwei Monate nach der Steigerung, einen
notariellen Erbteilungsvertrag zu unterzeichnen, kann alsdann der Erbe,
der den Abschluss des vorgesehenen Endvertrages verhindert hat, gegen die
Gültigkeit der nicht öffentlich beurkundeten Versteigerung Einwendungen
erheben? (Erw. 2).

    2.  Die freiwillige Versteigerung unter Miterben allein braucht
jedenfalls dann nicht öffentlich beurkundet zu werden, wenn sie im Rahmen
einer einem eigentlichen Erbteilungsvertrage gleichzuachtenden Vereinbarung
stattfindet. In diesen Grenzen genügt die einfache Schriftform, die
für den wenn auch unbewegliches Vermögen betreffenden Erbteilungsvertrag
ausreicht, auch für die freiwillige Versteigerung unter Miterben allein
(Erw. 3).

    3.  Unzulässige Vereinbarung einer Konventionalstrafe oder wenigstens
Ermässigung ihres Betrages als übermässig? (Erw. 4 und 5).

Sachverhalt

    A.- Le parti in causa sono gli unici eredi legittimi dei loro comuni
genitori e di una sorella premorta. Su proposta del fratello dott. Martino
Martinoli, i coeredi convenivano di formare con i beni della successione
quattro lotti da licitare tra essi soli. Incaricato di preparare il
capitolato d'asta, il notaio Gianluigi Buetti ne allestiva un progetto
che reca la data del 15 luglio 1953. A stregua del medesimo, tutti i
beni ereditari erano riuniti in quattro lotti da licitare separatamente;
l'asta doveva essere diretta dall'avv. Buetti "nella sua qualità di notaio
pubblico"; i coeredi che intendevano offrire all'asta dovevano prestare
una garanzia in contanti; tutti gli eredi si obbligavano a riconoscere
il risultato dell'incanto come base dell'atto di divisione che sarebbe
stato steso due mesi dopo l'esperimento d'asta nelle forme del pubblico
istrumento. Era inoltre precisato che se un coerede si fosse rifiutato di
firmare l'atto di divisione o avesse reso impossibile il perfezionamento
della divisione medesima per non "essere in possesso delle necessarie
liquidità a tacitazione dei rimanenti coeredi, il deposito effettuato a
titolo di garanzia sarebbe decaduto, quale pena di recesso, a favore di
tutti gli eredi in parti eguali".

    Non appena detto progetto di capitolato fu approvato da tutti i
coeredi, il notaio Buetti invitò questi a presentarsi a Dongio il 19
luglio per l'esperimento d'asta. Tutti i coeredi si presentarono il giorno
convenuto, personalmente o per il tramite di loro mandatari.

    Prima di iniziare l'incanto, il notaio dava lettura del capitolato
d'asta. Rispetto al progetto del 15 luglio, questo precisava il prezzo di
base dei singoli lotti e l'aliquota del deposito di garanzia (10 per cento
dei prezzi di base). Inoltre, la clausola relativa alla decadenza della
garanzia era stata modificata parzialmente nel senso che l'inadempimento
di un coerede non avrebbe avuto per effetto la nullità dell'asta (come
era stato detto nel progetto) bensì la citazione dell'inadempiente
in giudizio "per il riconoscimento della validità dell'asta". Per il
rimanente, i coeredi si obbligavano - in virtù di una nuova clausola -
"a dare la loro firma all'atto divisionale che verrà allestito dal notaio
Buetti G. L. conformemente alle risultanze del verbale d'incanto che
viene firmato, approvato e accettato da tutti i coeredi. Con la condanna
spontanea di ogni eccezione".

    Tutti i presenti approvarono e firmarono il capitolato d'asta
definitivo quale era stato loro letto. Il notaio procedeva allora
all'incanto, assegnando dopo le tre consuete chiamate i lotti 1 e 3 a
Daria Martinoli per il prezzo di 50 600 fr. rispettivamente 17 800 fr.,
il lotto 2 a Terenzio Martinoli per 32 700 fr. e il lotto 4 a Rosa-Lina
Martinoli per 55 300 fr. Martino Martinoli, avendo fatto offerte per
tutti e quattro i lotti, aveva prestato una garanzia di 6100 fr., pari
al 10 per cento del prezzo complessivo di base (61 000 fr.).

    Sull'esito dell'incanto, il notaio Buetti stendeva - in forma semplice
anzichè nelle forme dell'atto pubblico come prescrive il diritto ticinese
- un verbale. Previa lettura da parte del notaio, esso fu sottoscritto
da tutti i coeredi presenti. Martino Martinoli firmò in nome suo e della
sorella Eva Cima-Martinoli, da lui rappresentata.

    Conformemente alle disposizioni del capitolato d'asta, il notaio
convocava le parti a Dongio per il 18 settembre affinchè firmassero l'atto
notarile di divisione e pagassero il prezzo d'aggiudicazione dei lotti. Il
dott. Martino Martinoli non si presentò, con il risultato che l'atto di
divisione non potè essere concluso. Fondandosi sulla clausola relativa
alla "pena di recesso", il notaio gli comunicò, il giorno successivo,
che il suo deposito di 6100 fr. sarebbe stato ripartito tra tutti gli
eredi in parti eguali e che i coeredi si riservavano "di iniziare tutte
quelle pratiche giudiziarie che meglio riterranno del caso".

    Siccome reagì contestando la validità dell'asta, i coeredi convennero
Martino Martinoli e la sorella da lui rappresentata in giudizio davanti
al pretore del Distretto di Blenio.

    B.- Con sentenza del 14 luglio 1956, il pretore accolse le conclusioni
degli attori entro i limiti seguenti: riconosciuta la validità dell'asta
volontaria esperita il 19 luglio 1953, era ordinata l'iscrizione dei
beni aggiudicati nel registro fondiario al nome dei loro aggiudicatari;
questi dovevano versare a Martino Martinoli, per sè e quale cessionario
della quota ereditaria della sorella Eva Cima, la somma co mplessiva di
34 754 fr.; Martino Martinoli doveva pagare ai coeredi non aggiudicatari
un interesse del 5 per cento, dal 18 settembre 1953, sulla quota di 17 377
fr. spettante a ciascuno di essi; il deposito del convenuto, di 6100 fr.,
era passato in proprietà di tutti i coeredi.

    Adito da ambedue le parti, il Tribunale di appello confermava, nei
punti essenziali, il giudizio pretoriale, ma accoglieva la domanda del
convenuto che nessun interesse legale dovesse essere pagato ai coeredi
non aggiudicatari sulla loro quota di 17 377 fr. ciascuno.

    C.- Martino Martinoli ha interposto in tempo utile un ricorso per
riforma al Tribunale federale, chiedendo in via principale che la petizione
sia integralmente respinta e, in via subordinata, che il deposito di
6100 fr. gli sia rimborsato o che l'ammontare della pena convenzionale
sia per lo meno ridotto a una somma più adeguata. A sostegno delle sue
conclusioni, egli allega tra l'altro quanto segue: l'asta volontaria
esperita il 19 luglio 1953 è nulla per vizio di forma, dal momento che per
la trasmissione della proprietà e per l'iscrizione nel registro fondiario
è necessario l'atto pubblico (art. 655, 657 e 665 CC). L'art. 634 cp. 2
CC, secondo cui il contratto di divisione richiede per la sua validità
solo la forma scritta, sarebbe inapplicabile, giacchè i coeredi Martinoli
non "hanno trovato un accordo bonale per l'assegnazione della proprietà
loro pertoccata in eredità", contrariamente a quanto era avvenuto nel
caso trattato dalla sentenza RU 47 II 251. Determinante sarebbe il
principio, affermato dal Tribunale federale nella sentenza RU 63 I 30,
che "per l'assegnazione della proprietà a seguito di aggiudicazione ad
asta privata è indispensabile la forma dell'atto pubblico". Del resto,
i coeredi medesimi hanno previsto nel capitolato d'asta che l'incanto
doveva essere presieduto dall'avv. Buetti "nella sua qualità di notaio
pubblico". Tutti i commentatori sarebbero del parere che la divisione
eseguita mediante asta privata deve risultare da atto pubblico. Pure in
quanto atto preliminare della divisione, il verbale d'asta doveva essere
steso nella forma autentica (art. 22 cp. 2 CO). Infatti, la divisione che
interviene per incanti privati non si distingue per nulla dalla vendita
ordinaria e soggiace dunque necessariamente alle norme vigenti per i
contratti di compra-vendita (art. 216 CO).

    Nelle loro osservazioni, gli attori hanno concluso per la reiezione
integrale del gravame.

Auszug aus den Erwägungen:

                    Considerando in diritto:

Erwägung 1

    1.- .....

Erwägung 2

    2.- Con il capitolato d'asta sottoscritto il 19 luglio 1953, i coeredi
Martinoli avevano convenuto, da una parte, di licitare tra essi soli i beni
della successione e, dall'altra, di firmare - due mesi dopo l'incanto -
un contratto notarile di divisione.

    Dal tenore di questo accordo - considerato nel suo insieme -
si deduce che i coeredi Martinoli non conclusero, il 19 luglio 1953,
un contratto di divisione vero e proprio nel senso dell'art. 634 CC e
nemmeno conclusero un contratto preliminare di divisione. Il capitolato
d'asta non disciplinava infatti in nessun modo l'assegnazione dei beni
della successione, segnatamente degli immobili, ai singoli coeredi, ma si
limitava a stabilire la procedura che questi s'impegnavano formalmente
a seguire per l'esecuzione delle divisioni. Entro questi limiti, il
capitolato d'asta rientra manifestamente nell'ambito delle convenzioni
di divisione che gli eredi possono prendere nel senso e agli effetti
dell'art. 612 CC.

    Che una stipulazione siffatta non esiga la forma autentica, quand'anche
includa la divisione di beni immobili, è fuori di dubbio. Dal momento che i
coeredi Martinoli si erano impegnati a firmare un atto finale di divisione
steso nelle forme notarili, nemmeno l'esperimento d'asta avrebbe tuttavia
richiesto, per sè, l'atto pubblico. Se il contratto finale fosse stato
allestito e sottoscritto, sarebbe infatti stata adempiuta in ogni modo
anche la prescrizione dell'art. 657 cp. 1 CC, secondo cui il contratto
traslativo della proprietà richiede per la sua validità l'atto pubblico.

    Così stando le cose, si pone avantutto la questione se il presente
gravame non possa essere respinto già per il motivo che le eccezioni
sollevate dal ricorrente contro la validità dell'esperimento d'asta
volontaria devono essere definite abusive a norma dell'art. 2 CC. In
concreto, la risposta a questo interrogativo non può essere che
affermativa.

    Nessuna contestazione sarebbe infatti potuta nascere su questo
punto, se il ricorrente avesse dato seguito alla convocazione che gli
era stata inviata per il 18 settembre 1953 e avesse firmato il previsto
contratto notarile. Certo, l'abuso di diritto non può di massima essere
opposto a chi si rifiuti di eseguire un contratto perché sarebbe nullo
e di nessun effetto per un vizio di forma. Nella fattispecie, è però già
stato detto che gli accordi stipulati dagli eredi Martinoli non violavano
sicuramente, nel loro complesso, i requisiti di forma richiesti. In realtà,
le divisioni ereditarie non poterono essere portate a compimento solo
perchè il ricorrente si rifiutò da ultimo di firmare il previsto contratto
notarile finale. Dato che aveva assunto, a questo proposito, un preciso
impegno contrattuale, in luogo e vece del contratto di divisione notarile
può oggi subentrare una sentenza esecutiva a norma dell'art. 963 CC.

    Per evitare questa conseguenza, non giova al ricorrente pretendere
che l'atto pubblico sarebbe stato voluto per l'esperimento d'asta
dalle parti medesime e che gli accordi stipulati non potrebbero di
conseguenza vincolarlo già per questo motivo. Vero è che secondo una
clausola del capitolato d'asta le operazioni d'incanto dovevano essere
presiedute dall'"avv. Buetti G. L. da Muralto nella sua qualità di
pubblico notaio". Ciò è però avvenuto. Se le parti avessero veramente
inteso esperire l'asta nelle forme dell'atto pubblico, il notaio Buetti,
che non era un profano, lo avrebbe precisato nel capitolato d'asta da lui
redatto con una formula chiara. Significativa in merito è la circostanza
che quando, nello stesso documento, previde la stesura di un contratto
finale di divisione, il notaio Buetti ne specificò la forma, che doveva
essere quella appunto "dell'atto notarile".

    Soltanto se il contratto di divisione stesso avesse richiesto per
la sua validità la forma dell'atto pubblico, il ricorrente potrebbe
pretendere che i noti accordi stipulati nella forma scritta semplice non
potevano vincolarlo per un vizio di forma (art. 22 cp. 2 CO). Tuttavia,
il Tribunale federale ha già statuito nella sua sentenza RU 47 II 251
sgg. che il contratto di divisione giusta l'art. 634 cp. 2 CC è validamente
concluso nella forma scritta semplice quand'anche abbia per oggetto la
ripartizione di beni immobili. Quella giurisprudenza deve qui essere
confermata. Certo, l'art. 657 cp. 1 CC pone il principio che un contratto
traslativo della proprietà fondiaria richiede per la sua validità l'atto
pubblico. Occorre tuttavia chiedersi se il contratto di divisione implichi
una trasmissione della proprietà nel senso del disposto citato. La risposta
a tale questione, posta pure nella sentenza RU 47 II 251 ma lasciata
indecisa in quel caso, non può essere che negativa. Come è allora stato
esposto, gli art. 657 e 634 CC disciplinano infatti situazioni del tutto
diverse. Per gli interessati, la differenza essenziale si manifesta nel
fatto che mentre nell'alienazione di fondi a norma dell'art. 657 CC e -
per prenderne l'esempio più tipico - nella vendita a stregua dell'art. 216
CO tanto il compratore quanto il venditore sono interamente liberi di
trasmettere e di accettare la proprietà immobiliare concludendo o non
concludendo il contratto di compra-vendita, nel caso di un contratto
di divisione i coeredi già sono proprietari in comune di tutti i beni
ereditari per il solo effetto della morte del de cujus e sono tenuti per
legge ad accettare le divisioni medesime. Soltanto il modo della divisione
dipende dunque, entro certi limiti, dalla libera volontà dei coeredi nel
caso dell'art. 634 CC.

    Questa diversa posizione degli interessati giustifica senza dubbio la
conclusione che l'atto pubblico, necessario in generale per i contratti
traslativi della proprietà veri e propri, non è invece richiesto per
dei contratti che come quelli di divisione tendono in primo luogo alla
liquidazione di una comunione preesistente. È segnatamente evidente
che l'esigenza di proteggere i contraenti dalla conclusione di negozi
inconsulti o insufficientemente ponderati non si pone con la medesima
urgenza quando è in discussione non già la creazione di un nuovo diritto di
proprietà con tutti gli effetti che ne conseguono, bensì solo una specie
di consolidamento del diritto di proprietà (per usare un'espressione
della sentenza RU 47 II 254) sul capo di uno o più coeredi.

    L'opinione che la forma scritta semplice basti per il contratto di
divisione quand'anche la ripartizione includa dei beni immobili è tra
l'altro condivisa da TUOR (nota 16 ad art. 634 CC) e da ESCHER (nota 10
ad art. 634 CC). Per ciò che concerne la controversia se il requisito
dell'atto pubblico dovesse per lo meno essere mantenuto quale prescrizione
d'ordine agli effetti dell'iscrizione nel registro fondiario (cf. TUOR,
note 21-24 ad art. 634 CC), basterà qui osservare che pure essa è oggi
priva di oggetto. Con decreto del 30 settembre 1947, il Consiglio federale
ha infatti modificato l'art. 18 RRF nel senso che in caso di divisione
il documento giustificativo da produrre per l'iscrizione della proprietà
può consistere anche in "un atto di divisione steso in forma scritta".

    Se si tiene conto di quanto precede, il Tribunale di appello non ha
certamente violato il diritto federale quando ha ritenuto che l'invocato
art. 22 cp. 2 CO concernente la forma richiesta per le promesse di
contrattare non era applicabile. Dal momento che per l'atto di divisione
basta la forma scritta semplice, questa era in ogni modo sufficiente
anche per il capitolato d'asta.

    La circostanza che le parti non si siano contentate, per il contratto
finale di divisione, di tale forma ma abbiano scelto quella dell'atto
notarile non giustifica una conclusione diversa. Poichè le parti si
erano obbligate a riconoscere il risultato dell'asta e a firmare l'atto
notarile di divisione "con la condanna spontanea di ogni eccezione", devesi
ammettere che la stipulazione della forma autentica per il contratto finale
non doveva costituire se non una condizione contrattuale supplementare
(cfr. OSER/SCHÖNENBERGER, nota 5 ad art. 16 CO). Ora, una condizione
siffatta "si ha per verificata se il suo adempimento sia stato da una
delle parti impedito - come qui è il caso - in urto colla buona fede"
(art. 156 CO).

Erwägung 3

    3.- Il presente gravame deve comunque essere respinto,
indipendentemente dal fatto che era previsto un contratto finale di
divisione e che il relativo atto notarile non potè essere allestito
solo perchè il ricorrente si rifiutò abusivamente di firmarlo. Infatti,
l'argomento che la licitazione privata esperita tra i soli eredi Martinoli
debba essere ritenuta nulla agli effetti della trasmissione della proprietà
non può in ogni modo essere condiviso.

    Nel riassunto dei motivi, quale è stato premesso alla sentenza RU 63 I
30 sgg., è bensì stato affermato, senza limitazioni di sorta, che l'incanto
tra coeredi dei beni immobili di una successione conformemente all'art. 612
cp. 3 CC dev'essere documentato nelle forme dell'atto pubblico. Tuttavia,
tale enunciazione, troppo generale, non può essere determinante per
l'interpretazione del pensiero del Tribunale federale. Occorre piuttosto
riferirsi ai fatti allora ritenuti e ai motivi esposti, in funzione
di detti fatti, nel testo medesimo della sentenza. Se si prende questa
cautela, è facile constatare che il Tribunale federale non ha escluso
in modo assoluto, nella sentenza RU 63 I 30, l'ammissibilità della forma
scritta semplice per l'asta volontaria esperita tra coeredi. Ciò appare
già dalla circostanza che esso si è esplicitamente riferito all'eccezione
dell'art. 634 cp. 2 CC concernente i requisiti di forma posti ai contratti
di divisione e alla sentenza RU 47 II 251 che aveva sancito detta
eccezione, sia pure per escluderne in concreto l'applicabilità a motivo
del fatto che il verbale d'incanto non era stato sottoscritto da tutti i
coeredi. In realtà, il Tribunale federale ha allora negato ogni valore
all'asta tra coeredi esperita senza l'atto pubblico perchè il negozio
litigioso non rientrava tra quelli per i quali sono determinanti le sole
prescrizioni del diritto delle successioni. Dato che l'incanto era stato
ordinato dall'autorità competente, previa la nomina di un rappresentante
della comunione ereditaria, e il verbale relativo ai risultati dell'asta,
esperita con la collaborazione di un ufficiale preposto alle esecuzioni,
non era stato firmato da uno dei due eredi, il Tribunale federale considerò
che quel negozio doveva essere definito una vendita fatta nelle forme
dell'incanto privato ed esigeva dunque, come tale, l'atto pubblico.

    Su questo punto, la situazione è oggi totalmente diversa. Non solo
i fratelli Martinoli hanno tutti firmato il verbale dell'asta privata,
ma essi medesimi hanno convenuto, di comune accordo, la licitazione
privata limitata ai coeredi, precisando che si obbligavano a riconoscerne
i risultati e a firmare, due mesi dopo, un contratto di divisione. Non
si può dunque parlare, per ciò che li riguarda, di una vendita avvenuta
nelle forme dell'incanto privato giusta le disposizioni del Codice delle
obbligazioni, con susseguente liquidazione della comunione ereditaria. In
realtà, incanto e liquidazione della comunione ereditaria formano
qui un tutto unico voluto e convenuto dai coeredi medesimi nei limiti
dell'art. 612 CC.

    Per l'asta eseguita entro questi limiti, l'atto autentico non era
necessario, ma bastava la forma scritta. Il Tribunale federale giunge a
questa conclusione dopo avere considerato che il capitolato d'asta del
19 luglio 1953 dev'essere parificato, per ciò che concerne i requisiti
di forma posti alla sua validità, a un contratto di divisione vero
e proprio. Certo, manca in caso d'incanto una preliminare e concorde
manifestazione di volontà di tutti i coeredi circa il prezzo d'attribuzione
dei beni ereditari e la persona del o dei coeredi ai quali detti beni
devono essere assegnati. Tuttavia, tanto nell'una quanto nell'altra
fattispecie i coeredi sono concordi nello scegliere una procedura
oggettiva intesa a permettere lo scioglimento della comunione ereditaria
(attribuzione diretta dei lotti formati in precedenza o incanto dei beni
e consecutivo conguaglio), e nel ritenersi vincolati dall'accordo concluso
a questo scopo.

    Per infirmare questa conclusione, non giova al ricorrente distinguere
tra il capitolato e l'esperimento d'asta e pretendere che l'atto pubblico
sarebbe necessario almeno per il secondo. Infatti, l'incanto tra i soli
coeredi a stregua dell'art. 612 cp. 3 non può in ogni modo essere trattato,
se è eseguito come qui nell'ambito di una convenzione parificabile a un
contratto di divisione vero e proprio, alla stregua di una vendita giusta
l'art. 216 CO o dell'incanto che ne fa le veci a norma dell'art. 229
CO. Semprechè le condizioni poste dal diritto successorio siano adempiute,
esso costituisce in realtà una semplice modalità di ripartizione. Entro
questi limiti, l'incanto tra i coeredi non esige certo l'atto pubblico
così come non lo esigono il contratto di divisione vero e proprio e la
divisione reale.

    L'opinione che, in caso d'incanto tra coeredi a norma dell'art. 612
CC, la trasmissione della proprietà non richieda l'atto pubblico è
segnatamente condivisa, nella dottrina, da BECKER, il quale richiama
l'analogia con il contratto di divisione (Commentario, nota 11 ad art. 229
CO). L'ammissibilità della forma scritta semplice è invece negata da
OSER/SCHÖNENBERGER (Commentario, introduzione agli art. 229-236, CO
nota 18). Ma questi autori misconoscono appunto che, quando l'incanto
è convenuto di comune accordo e il verbale che ne accerta i risultati è
sottoscritto da tutti i coeredi, non si è in presenza di una vendita, bensì
di una divisione a norma del diritto successorio. In questa eventualità,
solo l'art. 612 cp. 3 CC - c he par la di "vendita agli incanti" senza
precisazioni di sorta - può esere determinante.

Erwägung 4

    4.- Pure gli altri argomenti del ricorrente sono infondati. È in
particolare evidente che i coeredi aggiudicatari degli immobili dovranno
provare, all'atto dell'iscrizione nel registro fondiario, di avere versato
il conguaglio in denaro ai coeredi non aggiudicatari, conformemente a
quanto il capitolato d'asta del 19 luglio 1953 già prevedeva, del resto,
nel suo paragrafo 8. Circa l'allegazione secondo cui - in assenza di
un inventario giusta gli art. 486 sgg. CC - i "mobili e i redditi della
sostanza" sarebbero stati esclusi dall'incanto, basterà osservare che la
questione avrebbe potuto e dovuto essere sollevata in sede cantonale.

    Per il rimanente, a torto il ricorrente persiste ad affermare anche
in questa sede che il paragrafo 9 del capitolato d'asta, nella misura
in cui contemplava il perseguimento giudiziale dei coeredi inadempienti
per il riconoscimento della validità dell'asta, sarebbe illegale e
inammissibile. Su questo punto, l'affermazione che il pagamento del prezzo
di aggiudicazione poteva diventare impossibile a motivo di malattia o
di perdite finanziarie appare del tutto inverosimile: basti pensare che
detto pagamento doveva intervenire all'atto della firma del contratto
di divisione, cioè due mesi appena dopo l'esperimento d'asta. Del resto,
scopo essenziale della pena convenzionale - parimente stipulata in quel
paragrafo - era precisamente quello di evitare che un coerede potesse
rendere illusorio il successo dell'asta mediante offerte inconsiderate,
superiori alle sue possibilità.

Erwägung 5

    5.- Nemmeno la conclusione subordinata del ricorrente tendente
all'annullamento o per lo meno alla riduzione della pena convenzionale di
6100 fr., ripartita fra tutti i coeredi conformemente al capitolato d'asta,
può essere accolta. Dal momento che il ricorrente ha fatto offerte per
tutti e quattro i lotti e lui solo è responsabile della mancata conclusione
del contratto finale di divisione, la pena convenzionale è stata applicata
correttamente. È in particolare escluso che il suo ammontare, pari al
10 per cento del valore di base dei lotti, sia eccessivo nel senso
dell'art. 163 cp. 3 CO, tanto più se si tiene conto del fatto che,
sulla somma complessiva di 6100 fr., 1355 fr. 50 sono stati restituiti
al ricorrente, quale quota sua e della sorella che gli ha ceduto i suoi
diritti.

Entscheid:

                Il Tribunale federale pronuncia:

    Il ricorso è respinto. Di conseguenza, la sentenza 6 febbraio
1957 della Camera civile del Tribunale di appello del Cantone Ticino
è confermata.